[…] Colpisce come la peculiarità di questa «filosofia dell’avarizia» [espressa in un brano di Walter Benjamin] sia l’ideale dell’uomo onesto degno di credito, e, soprattutto, l’idea che il singolo sia moralmente tenuto ad aumentare il proprio capitale (col presupposto che l’interesse a tal aumento sia fine a se stesso). In effetti, che non vi sia predicata semplicemente una tecnica di vita, ma una peculiare «etica» – la cui violazione non è trattata solo come follia, ma come una specie di negligenza del dovere –, questo è soprattutto il punto essenziale. Non è solo l’«abilità negli affari» a esservi insegnata (come accade abbastanza spesso anche altrove); ciò che si esprime è un ethos, che ci interessa appunto in quanto tale.
[…]
Ma, soprattutto, il «summum bonum» di questa «etica» – guadagnare denaro, sempre più denaro, alla condizione di evitare rigorosamente ogni piacere spontaneo – è così spoglio di ogni considerazione eudemonistica o addirittura edonistica, è pensato come fine a se stesso con tanta purezza, da apparire come alcunché di totalmente trascendente, in ogni caso, e senz’altro irrazionale, di fronte alla «felicità» o all’«utilità» del singolo individuo. L’attività lucrativa non è più in funzione dell’uomo quale semplice mezzo per soddisfare i bisogni materiali della sua vita, ma, al contrario, è lo scopo della vita dell’uomo, ed egli è in sua funzione.
M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1905