Mi sembra che il concetto di theologia negativa sia effettivamente il solo che possa rendere conto in modo adeguato del tipo molto particolare di problematica religiosa presente nei romanzi di Kafka. La redenzione messianica (e anche, come vedremo, l’utopia libertaria) appare in lui soltanto in «calco», nella «fodera» del reale o disegnata in filigrana dal contorno nero del mondo presente. Ciò vale, soprattutto, per il suo ultimo grande scritto narrativo, Il castello.
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Kafka sembra condividere la convinzione di Strindberg (che si ritrova anche in Benjamin) che «l’inferno è questa vita»: in uno degli aforismi di Zürau, scrive: «di diabolico non c’è altro che quanto appare di caso in caso». È proprio questo sguardo desolato sul mondo che ci rinvia all’aspirazione messianica. Nessuno meglio di Adorno ha percepito questa dialettica paradossale di Kafka: a suo avviso nel Castello (e nel Processo) la nostra esistenza è presentata come «l’inferno colto dal punto di vista della redenzione»; essa è illuminata da una luce che «rivela le fessure del mondo come infernali». In questo mondo decaduto, ogni tentativo isolato – come quello dell’agrimensore K. – di opporre la verità alla menzogna è votato al fallimento. Secondo Kafka, «in un mondo di menzogna, la menzogna non viene bandita dal mondo nemmeno attraverso il suo contrario, bensì attraverso un mondo di verità»; in altri termini, attraverso la redenzione che sola potrà abolire il mondo esistente e sostituirlo con uno nuovo […] In conclusione: Il processo e Il castello descrivono un mondo disperato, votato all’assurdo, all’ingiustizia autoritaria e alla menzogna, un mondo senza libertà dove la redenzione messianica si manifesta soltanto negativamente, per la sua assenza radicale. Non solo non c’è alcun messaggio positivo, ma la promessa messianica del futuro esiste soltanto implicitamente, nella forma religiosa di concepire (e rifiutare) il mondo contemporaneo come infernale. La critica dello stato di cose esistenti è sociale e politica, ma ha anche una dimensione trascendentale, metafisica (ciò che distingue radicalmente le sue opere da qualsiasi narrativa «realista»), teologica. La «teologia» di Kafka – se si può utilizzare questo termine – è dunque negativa in un senso preciso: suo oggetto è la non-presenza di Dio nel mondo e la non-redenzione degli uomini. Questo modo di affermare il positivo soltanto attraverso il suo contrario, il suo Gegenstück negativo, si manifesta tanto nei romanzi che nei paradossi degli aforismi. Come scrive Maurice Blanchot, «tutta l’opera di Kafka è alla ricerca di un’affermazione che vorrebbe vincere attraverso la negazione (…). La trascendenza è per l’appunto». Alla theologia negativa, al messianismo negativo di Kafka corrisponde, sul terreno politico, una utopia negativa, un anarchismo negativo. Heinz Politzer parla di Kafka come di un «anarchico metafisico». Mi sembra, in effetti, che le sue opere principali – e in particolare Il processo e Il castello – contengano una dimensione critica della reificazione burocratica e dell’autorità statale gararchizzata (giuridica o amministrativa) d’ispirazione chiaramente anarchica. Questa interpretazione «politica» è evidentemente soltanto parziale: l’universo di Kafka è troppo ricco e multiforme perché lo si possa ridurre a una formula unilaterale. Ma essa non è affatto in contraddizione con la lettura religiosa o teologica: al contrario esiste tra le due una sorprendente analogia strutturale. All’assenza della redenzione, indice religioso di un’epoca dannata, corrisponde l’assenza della libertà nell’universo opprimente dell’arbitrio burocratico. È solo in calco che si profilano la speranza messianica e la speranza utopica: il radicalmente altro. L’anarchismo è così caricato di spiritualità religiosa e acquista una proiezione «metafisica»
Michael Löwy, Redenzione e Utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 88-90