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fragmenta politica

dissoluzione totale

Il continuo sconvolgimento della produzione, l’ininterrotta messa in discussione di tutte le condizioni sociali, l’insicurezza e il movimento perpetui distinguono l’epoca borghese da tutte quelle precedenti. Vengono dissolti tutti i rapporti stabili e irrigiditi con il loro seguito di modi di vedere e di concezioni venerate e di veneranda età, e i rapporti nuovi invecchiano prima ancora di potersi consolidare. Si volatilizzano le immobili gerarchie sociali, viene profanato tutto ciò che vi è di sacro, e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con sguardo disincantato la propria posizione nella vita e i propri reciproci rapporti.

K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, cap. I (“Borghesi e proletari”)

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nugae politica

rivoluzioni: marx e benjamin

Le rivoluzioni sono le locomotive della storia.

Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, cap. 3

Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia uni­versale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del ge­nere umano in viaggio su questo treno.

Walter Benjamin, Appendice a Sul concetto di Storia, in Opere complete, vol. VII. Scritti 1938-1940, p. 497.

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filosofia nugae politica

bio-politica

Per millenni, l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele: un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente.

Michel Foucault, La volonté de savoir, 1976

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fragmenta politica

diritto di morte e potere sulla vita

L’Occidente ha conosciuto a partire dall’età classica una trasformazione molto profonda di questi meccanismi del potere. Il “prelievo” tende a non esserne più la forma principale, ma solo un elemento fra altri che hanno funzioni d’incitazione, di rafforzamento, di controllo, di sorveglianza, di maggiorazione e di organizzazione delle forze che sottomette: un potere destinato a produrre delle forze, a farle crescere e ad ordinarle piuttosto che a bloccarle, a piegarle o a distruggerle. Il diritto di morte tenderà da questo momento in poi a spostarsi, o almeno ad appoggiarsi sulle esigenze di un potere che gestisce la vita ed a finalizzarsi a ciò che queste domandano. Questa morte, che si fondava sul diritto del sovrano di difendersi o di chiedere che lo si difenda, apparirà come l’altra faccia del diritto che ha il corpo sociale di assicurare la sua vita, di mantenerla o di svilupparla. Mai le guerre sono state tuttavia più sanguinose che dal XIX secolo in poi e, anche fatte le debite proporzioni, mai i regimi avevano praticato fino a quel momento sulle loro popolazioni simili olocausti. Ma questo formidabile potere di morte — ed è forse questo che gli dà una parte della sua forza e del cinismo con il quale ha portato così lontano i propri limiti — si presenta ora come il complemento di un potere che si esercita positivamente sulla vita, che incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi e regolazioni d’insieme. Le guerre non si fanno più in nome del sovrano che bisogna difendere; si fanno in nome dell’esistenza di tutti; si spingono intere popolazioni ad uccidersi reciprocamente in nome della loro necessità di vivere.

I massacri sono diventati vitali. Come gestori della vita e della sopravvivenza, dei corpi e della razza, tanti regimi hanno potuto condurre tante guerre, facendo uccidere tanti uomini. E attraverso un capovolgimento che permette di chiudere il cerchio, più la tecnologia delle guerre le ha fatte volgere alla distruzione esaustiva, più nei fatti la decisione che le apre e quella che le chiude si subordinano alla pura questione della sopravvivenza. La situazione atomica è oggi al punto d’arrivo di questo processo: il potere di esporre una popolazione ad una morte generale è l’altra faccia del potere di garantire ad un’altra il suo mantenimento nell’esistenza. Il principio: poter uccidere per poter vivere, che sorreggeva la tattica dei combattimenti, è diventato principio di strategia fra Stati; ma l’esistenza in questione non è più quella, giuridica, della sovranità, ma quella, biologica, di una popolazione. Se il genocidio è il sogno dei poteri moderni, non è per una riattivazione del vecchio diritto di uccidere; è perché il potere si colloca e si esercita a livello della vita, della specie, della razza e dei fenomeni massicci di popolazione.

Michel Foucault, La volonté de savoir, 1976

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politica

recuperare il futuro

Per arrivare a una nuova egemonia globale della sinistra occorre recuperare alcuni dei possibili futuri smarriti – o meglio, va recuperato il futuro in quanto tale.

Ma il problema del neoliberismo di Land è che confonde la velocità con l’accelerazione. È vero che ci muoviamo velocemente, ma solo entro un set rigidamente definito e fisso di parametri capitalistici. Ciò che noi sperimentiamo è solo la velocità crescente di un orizzonte locale, il movimento inerziale di un encefalogramma piatto, e non un’accelerazione che sia anche navigazione, processo sperimentale di scoperta nell’ambito di uno spazio universale di possibilità. Questa seconda modalità di accelerazione è invece per noi essenziale.

Gli accelerazionisti vogliono liberare le forze produttive latenti. In questo progetto, non c’è bisogno di distruggere la piattaforma materiale del neoliberismo: essa va piuttosto reindirizzata verso obiettivi comuni. L’infrastruttura esistente non è una fase del capitalismo da distruggere, ma un trampolino di lancio verso il postcapitalismo

Alex Williams, Nick Srnicek, Manifesto accelerazionista, 2013

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politica

la mort du capitalisme

L’expérience de notre génération : le capitalisme ne mourra pas de mort naturelle.

Walter Benjamin, Le Livre des passages, p. 681 (GS V, 2 p. 819)

La société sans classes n’est pas le but final du progrès dans l’histoire mais plutôt son interruption mille fois échouée, mais finalement accomplie.

Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, XVIIa

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letteratura politica

la theologia negativa di kafka

Mi sembra che il concetto di theologia negativa sia effettivamente il solo che possa rendere conto in modo adeguato del tipo molto particolare di problematica religiosa presente nei romanzi di Kafka. La redenzione messianica (e anche, come vedremo, l’utopia libertaria) appare in lui soltanto in «calco», nella «fodera» del reale o disegnata in filigrana dal contorno nero del mondo presente. Ciò vale, soprattutto, per il suo ultimo grande scritto narrativo, Il castello.

[…]

Kafka sembra condividere la convinzione di Strindberg (che si ritrova anche in Benjamin) che «l’inferno è questa vita»: in uno degli aforismi di Zürau, scrive: «di diabolico non c’è altro che quanto appare di caso in caso». È proprio questo sguardo desolato sul mondo che ci rinvia all’aspirazione messianica. Nessuno meglio di Adorno ha percepito questa dialettica paradossale di Kafka: a suo avviso nel Castello (e nel Processo) la nostra esistenza è presentata come «l’inferno colto dal punto di vista della redenzione»; essa è illuminata da una luce che «rivela le fessure del mondo come infernali». In questo mondo decaduto, ogni tentativo isolato – come quello dell’agrimensore K. – di opporre la verità alla menzogna è votato al fallimento. Secondo Kafka, «in un mondo di menzogna, la menzogna non viene bandita dal mondo nemmeno attraverso il suo contrario, bensì attraverso un mondo di verità»; in altri termini, attraverso la redenzione che sola potrà abolire il mondo esistente e sostituirlo con uno nuovo […] In conclusione: Il processo e Il castello descrivono un mondo disperato, votato all’assurdo, all’ingiustizia autoritaria e alla menzogna, un mondo senza libertà dove la redenzione messianica si manifesta soltanto negativamente, per la sua assenza radicale. Non solo non c’è alcun messaggio positivo, ma la promessa messianica del futuro esiste soltanto implicitamente, nella forma religiosa di concepire (e rifiutare) il mondo contemporaneo come infernale. La critica dello stato di cose esistenti è sociale e politica, ma ha anche una dimensione trascendentale, metafisica (ciò che distingue radicalmente le sue opere da qualsiasi narrativa «realista»), teologica. La «teologia» di Kafka – se si può utilizzare questo termine – è dunque negativa in un senso preciso: suo oggetto è la non-presenza di Dio nel mondo e la non-redenzione degli uomini. Questo modo di affermare il positivo soltanto attraverso il suo contrario, il suo Gegenstück negativo, si manifesta tanto nei romanzi che nei paradossi degli aforismi. Come scrive Maurice Blanchot, «tutta l’opera di Kafka è alla ricerca di un’affermazione che vorrebbe vincere attraverso la negazione (…). La trascendenza è per l’appunto». Alla theologia negativa, al messianismo negativo di Kafka corrisponde, sul terreno politico, una utopia negativa, un anarchismo negativo. Heinz Politzer parla di Kafka come di un «anarchico metafisico». Mi sembra, in effetti, che le sue opere principali – e in particolare Il processo e Il castello – contengano una dimensione critica della reificazione burocratica e dell’autorità statale gararchizzata (giuridica o amministrativa) d’ispirazione chiaramente anarchica. Questa interpretazione «politica» è evidentemente soltanto parziale: l’universo di Kafka è troppo ricco e multiforme perché lo si possa ridurre a una formula unilaterale. Ma essa non è affatto in contraddizione con la lettura religiosa o teologica: al contrario esiste tra le due una sorprendente analogia strutturale. All’assenza della redenzione, indice religioso di un’epoca dannata, corrisponde l’assenza della libertà nell’universo opprimente dell’arbitrio burocratico. È solo in calco che si profilano la speranza messianica e la speranza utopica: il radicalmente altro. L’anarchismo è così caricato di spiritualità religiosa e acquista una proiezione «metafisica»

Michael Löwy, Redenzione e Utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 88-90

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politica

il progresso

Il concetto di progresso dev’essere fondato nell’idea di catastrofe. La catastrofe è che tutto continui come prima. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato. Il pensiero di Strindberg: l’inferno non è nulla che ci attenda – ma la nostra vita qui.

Walter Benjamin, Parco centrale (1938), in Angelus novus, Einaudi, Torino 1962

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filosofia fragmenta politica

capitalismo come religione

Walter Benjamin & Andy Warhol | Lapham's Quarterly

Nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. Dimostrare tale struttura religiosa del capitalismo – e non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso – condurrebbe ancora oggi nella direzione sbagliata di una smisurata polemica universale. Non possiamo sbrogliare la rete in cui ci troviamo. In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme.

Tre tratti di questa struttura religiosa del capitalismo sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo, il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai si sia data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce, da questo punto di vista, la sua coloritura religiosa. A questa concretizzazione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans [t]rêve et sans merci [“senza tregua e senza pietà”]. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante. Questo culto è in terzo luogo, al contempo, colpevolizzante e indebitante (verschuldend). Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa e debito (verschuldend). Ed è qui che questo sistema religioso precipita in un movimento immane. Una terribile coscienza della colpa (Schuldbewuβtsein), che non sa purificarsi, ricorre al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, per conficcarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per coinvolgere in questa colpa il dio stesso e alla fine rendere lui stesso interessato all’espiazione.

Espiazione che tuttavia non va attesa dal culto stesso, e nemmeno dalla riforma di questa religione – che dovrebbe potersi reggere su qualcosa di saldo in essa – e neanche dal rinnegarla. È nell’essenza di questo movimento religioso – che è il capitalismo – resistere fino alla fine, fino alla finale e completa colpevolizzazione di Dio, al suo indebitamento, fino al raggiungimento dello stato di disperazione del mondo, in cui si arriva persino a sperare. In questo consiste l’aspetto storicamente inaudito del capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, bensì la sua frantumazione. L’estensione della disperazione a stato religioso del mondo è ciò da cui si attende la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta. Ma egli non è morto, è incluso nel destino umano. Questo transito del pianeta Uomo per la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della sua orbita, è l’ethos che Nietzsche determina. Questo uomo è l’Übermensch, il primo che comincia consapevolmente a compiere la religione capitalistica. Il cui quarto tratto è che il suo Dio deve restare nascosto ed è permesso invocarlo soltanto allo Zenit della sua colpevolizzazione, del suo indebitamento. Il culto è celebrato al cospetto di una divinità immatura – ogni rappresentazione, ogni pensiero rivolto a essa viola il segreto della sua maturità.

Anche la teoria freudiana appartiene al dominio sacerdotale di questo culto. Essa è concepita interamente in modo capitalistico. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è – per una profonda analogia ancora da esaminare – il capitale, che grava di interessi l’inferno dell’inconscio.

Il tipo di pensiero religioso capitalistico si trova espresso grandiosamente nella filosofia di Nietzsche. L’idea dell’Übermensch disloca il “balzo” apocalittico non nell’inversione (Umkehr), nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza, bensì in un potenziamento apparentemente costante, ma che nell’ultimo tratto è dirompente e discontinuo. Pertanto, potenziamento e sviluppo nel senso del “non facit saltum” sono incompatibili. L’Übermensch è l’uomo storico giunto alla sua condizione senza inversione di rotta, cresciuto fino ad attraversare il cielo. Nietzsche ha anticipato questa deflagrazione del cielo per mezzo di un elemento umano potenziato, che (anche per Nietzsche) è e resta in termini religiosi colpevolizzazione. E più o meno lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non si inverte diviene – con interessi e interessi composti che sono funzioni del debito (notare l’ambiguità demoniaca di questo concetto) – Socialismo.

Il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma.

Il capitalismo si è sviluppato in Occidente – come va dimostrato non soltanto per il calvinismo, ma anche per le altre correnti cristiane ortodosse – in modo parassitario sul cristianesimo, in modo tale che, alla fine, la storia di quest’ultimo è essenzialmente quella del suo parassita, il capitalismo.

Paragone tra, da un lato, le immagini sacre delle diverse religioni e, dall’altro, le banconote dei diversi Stati. Lo spirito che parla dall’ornamento delle banconote.

Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto: Sorel, Réflexions sur la violence, p. 262.
Superamento del capitalismo mediante la migrazione: Unger, Politik und Metaphysik, p. 44.
Fuchs, Struktur der kapitalistischen Gesellschaft (o qualcosa di simile).
Max Weber, Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie, 2 voll., 1919-1920.
Ernst Troeltsch, Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. I, 1912).
Si vedano le indicazioni bibliografiche di Schönberg II.
Landauer, Aufruf zum Sozialismus, p. 144.

Le preoccupazioni: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica. Assenza spirituale (e non materiale) di via d’uscita nella povertà e nel monachesimo di vaganti e mendicanti. Una condizione che è talmente senza via d’uscita da essere colpevolizzante e indebitante. Le “preoccupazioni” sono l’indice di tale coscienza della colpa per l’assenza di via d’uscita. Le “preoccupazioni” sorgono dall’angoscia per l’assenza di una via d’uscita che sia comunitaria e non individuale-materiale.

Il cristianesimo nell’epoca della Riforma non ha favorito l’avvento del capitalismo, ma si è trasformato in capitalismo.

Sul piano metodologico si dovrebbe indagare innanzitutto quali legami il denaro abbia stretto con il mito nel corso della storia, finché non ha potuto trarre dal cristianesimo così tanti elementi mitici da costituire un proprio mito.

Guidrigildo / thesaurus delle buone opere / compenso dovuto al sacerdote. Pluto come dio della ricchezza.

Adam Müller, Reden über die Beredsamkeit, 1816, p. 56 sgg.

Connessione con il capitalismo del dogma della natura dissolutrice del sapere, che ha la capacità al contempo di redimerci e di ucciderci: il bilancio in quanto sapere che redime e che liquida.

Contribuisce a riconoscere che il capitalismo è una religione rammentare che il paganesimo originario ha dapprima compreso la religione non come un interesse “superiore” e “morale”, bensì come il più immediato interesse pratico; in altre parole, non aveva affatto chiaro, come il capitalismo odierno, la sua natura “ideale” o “trascendente”, ma vedeva piuttosto nell’individuo irreligioso o di altra confessione della sua comunità un membro indubitabile di essa, proprio nel senso in cui la borghesia di oggi considera i suoi membri che non guadagnano.

[metà 1921]

Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. VI, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1972-1989, pp. 100-103; in Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: Capitalismo e religione, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 9-12. Traduzione a cura del Seminario dell’Associazione Italiana Walter Benjamin (AWB).

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filosofia politica

etica dei principî, etica della responsabilità

Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può essere ricondotto a due massime fondamentalmente diverse l’una dall’altra e inconciliabilmente opposte: può cioè orientarsi nel senso di un’«etica dei principî» [Gesinnungsethik] oppure di un’«etica della responsabilità» [Verantwortungsethik]. Ciò non significa che l’etica dei principî coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con una mancanza di principî. Non si tratta ovviamente di questo. Vi è altresí un contrasto radicale tra l’agire secondo la massima dell’etica dei principî, la quale, formulata in termini religiosi, recita: «Il cristiano agisce da giusto e rimette l’esito del suo agire nelle mani di Dio», oppure secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale si deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire. […] Colui che agisce secondo l’etica dei principî si sente «responsabile» soltanto del fatto che la fiamma del puro principio – per esempio la fiamma della protesta conto l’ingiustizia dell’ordinamento sociale – non si spenga. Ravvivarla continuamente è lo scopo delle sue azioni completamente irrazionali dal punto di vista del possibile risultato, le quali possono e devono avere soltanto un valore esemplare

Max Weber, Politik als Beruf, 1919