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letteratura politica

la theologia negativa di kafka

Mi sembra che il concetto di theologia negativa sia effettivamente il solo che possa rendere conto in modo adeguato del tipo molto particolare di problematica religiosa presente nei romanzi di Kafka. La redenzione messianica (e anche, come vedremo, l’utopia libertaria) appare in lui soltanto in «calco», nella «fodera» del reale o disegnata in filigrana dal contorno nero del mondo presente. Ciò vale, soprattutto, per il suo ultimo grande scritto narrativo, Il castello.

[…]

Kafka sembra condividere la convinzione di Strindberg (che si ritrova anche in Benjamin) che «l’inferno è questa vita»: in uno degli aforismi di Zürau, scrive: «di diabolico non c’è altro che quanto appare di caso in caso». È proprio questo sguardo desolato sul mondo che ci rinvia all’aspirazione messianica. Nessuno meglio di Adorno ha percepito questa dialettica paradossale di Kafka: a suo avviso nel Castello (e nel Processo) la nostra esistenza è presentata come «l’inferno colto dal punto di vista della redenzione»; essa è illuminata da una luce che «rivela le fessure del mondo come infernali». In questo mondo decaduto, ogni tentativo isolato – come quello dell’agrimensore K. – di opporre la verità alla menzogna è votato al fallimento. Secondo Kafka, «in un mondo di menzogna, la menzogna non viene bandita dal mondo nemmeno attraverso il suo contrario, bensì attraverso un mondo di verità»; in altri termini, attraverso la redenzione che sola potrà abolire il mondo esistente e sostituirlo con uno nuovo […] In conclusione: Il processo e Il castello descrivono un mondo disperato, votato all’assurdo, all’ingiustizia autoritaria e alla menzogna, un mondo senza libertà dove la redenzione messianica si manifesta soltanto negativamente, per la sua assenza radicale. Non solo non c’è alcun messaggio positivo, ma la promessa messianica del futuro esiste soltanto implicitamente, nella forma religiosa di concepire (e rifiutare) il mondo contemporaneo come infernale. La critica dello stato di cose esistenti è sociale e politica, ma ha anche una dimensione trascendentale, metafisica (ciò che distingue radicalmente le sue opere da qualsiasi narrativa «realista»), teologica. La «teologia» di Kafka – se si può utilizzare questo termine – è dunque negativa in un senso preciso: suo oggetto è la non-presenza di Dio nel mondo e la non-redenzione degli uomini. Questo modo di affermare il positivo soltanto attraverso il suo contrario, il suo Gegenstück negativo, si manifesta tanto nei romanzi che nei paradossi degli aforismi. Come scrive Maurice Blanchot, «tutta l’opera di Kafka è alla ricerca di un’affermazione che vorrebbe vincere attraverso la negazione (…). La trascendenza è per l’appunto». Alla theologia negativa, al messianismo negativo di Kafka corrisponde, sul terreno politico, una utopia negativa, un anarchismo negativo. Heinz Politzer parla di Kafka come di un «anarchico metafisico». Mi sembra, in effetti, che le sue opere principali – e in particolare Il processo e Il castello – contengano una dimensione critica della reificazione burocratica e dell’autorità statale gararchizzata (giuridica o amministrativa) d’ispirazione chiaramente anarchica. Questa interpretazione «politica» è evidentemente soltanto parziale: l’universo di Kafka è troppo ricco e multiforme perché lo si possa ridurre a una formula unilaterale. Ma essa non è affatto in contraddizione con la lettura religiosa o teologica: al contrario esiste tra le due una sorprendente analogia strutturale. All’assenza della redenzione, indice religioso di un’epoca dannata, corrisponde l’assenza della libertà nell’universo opprimente dell’arbitrio burocratico. È solo in calco che si profilano la speranza messianica e la speranza utopica: il radicalmente altro. L’anarchismo è così caricato di spiritualità religiosa e acquista una proiezione «metafisica»

Michael Löwy, Redenzione e Utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 88-90

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dinanzi alla legge

K. lo aspettò giù per le scale. Il pastore gli tese la mano già da uno dei gradini superiori durante la discesa. «Hai un po’ di tempo per me?», chiese K. «Tutto il tempo che ti serve», disse il pastore porgendo a K. la piccola lampada affinché la portasse. Anche da vicino non perdeva una certa solennità nel suo modo di fare. «Sei molto gentile con me», disse K., andavano avanti e indietro uno accanto all’altro nella buia navata laterale. «Sei un’eccezione tra tutti quelli che fanno parte del tribunale. Ho molta più fiducia in te che in uno qualsiasi di loro, per quel tanto che li conosco. Con te posso parlare apertamente.» «Non ingannarti», disse il pastore. «A che proposito dovrei ingannarmi?», chiese K. «Riguardo al tribunale tu ti inganni», disse il pastore, «negli scritti introduttivi alla Legge si parla di questo inganno: davanti alla Legge c’è un custode. Da questo custode arriva un uomo di campagna e lo prega di farlo entrare nella Legge. Ma il custode dice che al momento non gli può assicurare l’ingresso. L’uomo riflette e poi chiede se potrà allora entrare più tardi. “È possibile”, dice il custode “ma non ora”. Dal momento che il portone della Legge è aperto come sempre e che il custode si fa da parte, l’uomo si china per guardare all’interno attraverso il portone. Quando il custode se ne accorge, ride e dice: “se ti alletta tanto, prova pure ad entrare nonostante il mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo il custode di grado più basso. Sala dopo sala ci sono però custodi uno più potente dell’altro. Già solo la vista del terzo non la posso più sostenere”. L’uomo di campagna non si aspetta tali difficoltà, ma la Legge deve essere accessibile ad ognuno, pensa, ma osservando adesso meglio il custode nel suo cappotto di pelliccia, il suo grosso naso appuntito, la lunga, sottile, scura barba tartara, decide comunque che è preferibile aspettare di ottenere il permesso di entrare. Il custode gli dà uno sgabello e lo fa sedere accanto alla porta. Lì rimane seduto giorni e anni. Fa molti tentativi per essere ammesso e snerva il custode con le sue preghiere. Il custode gli fa di tanto in tanto piccoli interrogatori, gli chiede del suo paese natale e di molte altre cose, ma sono domande indifferenti, come quelle che fanno i grandi signori e alla fine gli dice sempre di nuovo che non può ancora entrare. L’uomo che si è ben fornito per il suo viaggio, adopera ogni cosa, per quanto valore avesse, per corrompere il custode. Questi, invero, accetta tutto, ma dice in merito: “lo accetto solo affinché tu non creda di avere tralasciato qualcosa”. Durante questi svariati anni l’uomo osserva il custode quasi ininterrottamente. Dimentica gli altri custodi, sembrandogli questo primo l’unico ostacolo per l’ingresso nella Legge. Durante questi primi anni maledice il caso infelice ad alta voce, in seguito, divenuto vecchio, borbotta ormai solo tra sé. Diventa puerile e poiché in quello studio del custode durato anni ha imparato a riconoscere anche le pulci nel bavero della sua pelliccia, implora persino le pulci di aiutarlo e di convincere il custode. Infine la luce degli occhi gli si indebolisce e non sa se effettivamente intorno a lui si faccia più scuro o se solo gli occhi lo ingannino. Ma proprio adesso, nel buio, egli distingue un bagliore che traluce perpetuo dal portone della Legge. A questo punto non vivrà più molto a lungo. Davanti alla morte, nella sua testa tutte le esperienze di tutto quel periodo si concentrano in una domanda che fino ad allora non aveva ancora posta al custode. Gli fa cenno, dal momento che la sua testa rigida non può più sollevarsi. Il custode si deve piegare su di lui perché la differenza di altezza è molto cambiata a danno dell’uomo. “Cos’altro vuoi sapere insomma?”, chiede il custode, “sei insaziabile”. “Poiché tutti aspirano alla Legge”, dice l’uomo, ‘‘da che dipende che in tutti questi anni nessuno all’infuori di me ha chiesto di entrare? ”. Il custode si avvede che l’uomo è proprio alla fine e per raggiungere ancora il suo udito che sta svanendo, gli strilla: “Qui nessuno poteva ottenere di entrare perché quest’ingresso era destinato solo a te. Adesso vado e lo chiudo”».

«Il custode allora ha ingannato l’uomo», disse subito K., attratto molto fortemente dal racconto. «Non essere precipitoso», disse il pastore, «non condividere una opinione estrinseca non provata. Ti ho raccontato la storia secondo la lettera dello scritto. Di inganno non si parla.» «Ma è chiaro», disse K., «e la tua prima interpretazione era completamente giusta. Il custode ha dato il messaggio risolutivo solo quando questo non poteva più aiutare l’uomo.» «Egli non venne interrogato in precedenza», disse il pastore, «rifletti inoltre sul fatto che era solo custode e come tale ha adempiuto al suo dovere.» «Perché credi che abbia fatto il suo dovere?», chiese K., «egli non l’ha fatto. Forse era suo dovere respingere tutti gli estranei, ma avrebbe dovuto far passare quest’uomo a cui era destinato quell’ingresso.» «Tu non hai abbastanza rispetto dello scritto e modifichi la storia», disse il pastore. «Riguardo al permesso di entrare nella Legge la storia contiene due importanti spiegazioni del custode, una all’inizio, una alla fine. In un luogo si dice che egli non poteva assicurargli al momento l’ingresso, nell’altro: questo ingresso era destinato solo a te. Se ci fosse una contraddizione tra queste due spiegazioni, allora avresti ragione tu e il custode avrebbe ingannato l’uomo. Ora, però, non c’è affatto contraddizione. Al contrario, la prima spiegazione rinvia alla seconda. Si potrebbe quasi dire che il custode sia andato oltre il suo dovere prospettando all’uomo una possibilità futura di accesso. A quel tempo sembra che suo dovere fosse solo di respingere l’uomo e di fatto molti interpreti dell’opera si meravigliano del fatto che il custode abbia fatto in generale quell’accenno perché egli sembra amare la precisione e attende con rigore al suo ufficio. Per molti anni non abbandona il suo posto e chiude la porta soltanto alla fine, è conscio dell’importanza del suo compito visto che dice: “io sono potente”, ha rispetto per le prescrizioni visto che dice: “sono solo il custode di grado più basso”, non è un chiacchierone perché durante i molti anni fa solo, come è detto, “domande indifferenti”, non è corrotto perché dice a proposito del dono: “lo accetto solo affinché tu non creda di aver tralasciato qualcosa”, laddove si tratta di compimento del dovere, non si fa né commuovere, né irritare perché è detto dell’uomo: “egli snerva il custode con le sue preghiere”, infine anche la sua figura esteriore indica un carattere pedante, il grosso naso appuntito, la barba tartara lunga, sottile e scura. Ci può essere un custode più fedele al dovere? Ora, però, si mescolano nel custode altri tratti essenziali che sono molto favorevoli per chi richiede il permesso di entrare e che rendono comprensibile, nondimeno, che con quell’accenno ad una possibilità futura egli possa essere andato oltre il suo dovere. Infatti è innegabile che egli sia un po’ ingenuo e perciò stesso un po’ vanitoso. Sebbene le sue dichiarazioni in merito al suo potere e in merito al potere degli altri custodi e persino in merito alla loro vista per lui insostenibile — dico, sebbene tutte queste dichiarazioni possono essere in sé giuste, tuttavia il modo in cui fa queste dichiarazioni, indica che la sua comprensione è turbata dalla ingenuità e dalla superbia. Gli interpreti dicono a questo proposito: “La giusta comprensione di una cosa e la incomprensione della stessa cosa non si escludono del tutto”. In ogni caso, però, si deve ammettere che quella ingenuità e quella superbia, per quanto forse si rivelino in misura minima, tuttavia indeboliscono la sorveglianza dell’ingresso, sono dei punti deboli nel carattere del custode. A ciò si aggiunge ancora che il custode per sua disposizione naturale sembra essere gentile, non è assolutamente sempre solo un uomo d’ufficio. Proprio a seguito dei primi sguardi egli fa lo scherzo di invitare l’uomo ad entrare nonostante il divieto esplicitamente sostenuto, poi non lo caccia via, bensì gli dà, come è detto, uno sgabello e lo fa sedere accanto al portone. La pazienza con la quale sopporta per tutti gli anni le preghiere dell’uomo, i brevi interrogatori, l’accettazione del regalo, la signorilità con cui lascia che l’uomo maledica al suo fianco l’infelice caso che ha messo lì il custode — tutto questo lascia presumere dei sentimenti di compassione. Non ogni custode avrebbe agito in questo modo. E infine egli si piega ancora ad un cenno sull’uomo per dargli occasione di un’ultima domanda. Soltanto una leggera impazienza — il custode sa già che tutto è alla fine — si manifesta nelle parole: “sei insaziabile”. Taluni vanno persino oltre in questo tipo di interpretazione e ritengono che le parole: “sei insaziabile” esprimano una specie di ammirazione amichevole che tuttavia non è esente da condiscendenza. In ogni caso la figura del custode si delinea diversa da quello che credi tu.» «Tu conosci la storia meglio di me e da più tempo», disse K. Tacquero per un po’. Quindi disse: «Tu credi allora che l’uomo non venne ingannato?». «Non mi fraintendere», disse il pastore, «io ti indico solo le opinioni che ci sono in merito. Non devi badare troppo alle opinioni. Lo scritto è invariabile e le opinioni spesso sono solo un’espressione di disperazione per questo fatto. In questo caso c’è persino un’opinione secondo la quale l’ingannato è proprio il custode.» «Questa è un’opinione spinta», disse K. «Su che si fonda?» «Il fondamento», rispose il pastore, «si poggia sull’ingenuità del custode. Si dice che egli non conosca l’interno della Legge, ma solo la via che deve sempre percorrere incessantemente davanti all’ingresso. Le idee che ha circa l’interno vengono ritenute infantili, e si suppone che egli stesso abbia timore delle cose che vuole far temere all’uomo. In effetti egli ne ha più timore dell’uomo perché questi certo non vuole nient’altro che entrare, anche quando ha sentito dei tremendi custodi che si trovano all’interno, al contrario il custode non vuole entrare, almeno non sa niente a riguardo. Altri dicono, invero, che deve essere già stato nell’interno in quanto è pur stato assunto una volta al servizio della Legge e ciò può essere avvenuto solo all’interno. A ciò si deve rispondere che poteva essere stato nominato custode con un grido dall’interno e che non poteva essere penetrato troppo all’interno perché comunque non poteva più reggere la visione già del terzo custode. Ma oltre a ciò non viene neanche riferito che egli durante gli svariati anni abbia raccontato qualche cosa dell’interno, a parte l’osservazione sui custodi. Poteva essergli vietato, ma anche del divieto non ha raccontato nulla. Da tutto questo si ricava che egli non sa niente circa l’aspetto e circa il valore dell’interno e che in merito si trova in inganno. Ma anche in merito all’uomo di campagna si deve trovare in inganno perché è sottoposto a quest’uomo e non lo sa. Che tratti l’uomo come un sottoposto si nota da molte cose che dovrebbero esserti ancora presenti alla memoria. Ma che di fatto sia lui sottoposto deve emergere altrettanto chiaramente da questa opinione. Innanzitutto il libero è superiore al vincolato. Ora, l’uomo di fatto è libero, può andare dove vuole, solo l’accesso alla Legge gli è proibito e per di più da un solo uomo, dal custode. Se si siede sullo sgabello accanto al portone e rimane lì per tutta la vita, fa ciò per sua volontà, la storia non parla di alcuna costrizione. Il custode, al contrario, è vincolato dal suo ufficio a restare al suo posto, non si può allontanare, ma secondo ogni apparenza non può neanche andare all’interno, anche se lo volesse. Oltre a ciò egli è, invero, al servizio della Legge, ma serve solo per questo ingresso, dunque anche solo per quell’uomo per il quale questo ingresso è esclusivamente destinato. Anche per questa ragione gli è sottoposto. Si deve presumere che per molti anni, per una intera vita, abbia prestato in un certo modo solo un vano servizio, perché viene detto che arriva un uomo, dunque un adulto, per questo il custode doveva aspettare a lungo prima di raggiungere il suo scopo, e certo dovette aspettare tanto a lungo quanto piacque all’uomo che giunse appunto di sua volontà. Ma anche la fine del servizio viene sancita con la fine della vita dell’uomo, dunque fino all’ultimo egli resta sottoposto a lui. E sempre viene sottolineato che di tutto questo il custode sembra non sapere niente. Ma, ciò non viene visto come qualcosa di strano perché secondo questa opinione il custode si trova in un inganno ancora più grave che rispetto al suo servizio. Alla fine parla infatti dell’ingresso e dice: “ora vado e lo chiudo”, mentre all’inizio è detto che il portone della Legge sta aperto come sempre, ma sta sempre aperto, sempre, ossia indipendentemente dalla durata della vita dell’uomo a cui è destinato, quindi non potrà chiuderlo neanche il custode. Le opinioni divergono a proposito del fatto se il custode con l’annuncio che chiuderà il portone dia solo una risposta o sottolinei il suo dovere di servizio, oppure voglia istillare nell’uomo ancora nell’ultimo istante pentimento o afflizione. Ma su questo punto molti concordano, che non potrà chiudere il portone; credono persino che, almeno alla fine, sia sottoposto all’uomo anche nel suo sapere, perché questi vede il bagliore che scaturisce dall’ingresso della Legge, mentre il custode come tale sta proprio con le spalle all’ingresso e neanche mostra con una qualche affermazione che aveva notato un mutamento». «Questo è ben fondato», disse K. che aveva ripetuto tra sé a mezza voce singoli brani della spiegazione del pastore. «È ben fondato ed anch’io credo adesso che il custode sia ingannato. Ma non per questo sono portato ad abbandonare la mia prima opinione perché in parte coincidono entrambe. È indifferente se il custode veda chiaro o venga ingannato. Io dicevo che l’uomo viene ingannato. Se il custode vede chiaro, si potrebbe dubitarne, ma il custode è ingannato allora si deve necessariamente trasporre il suo inganno sull’uomo. Il custode non è poi veramente un impostore, ma è così ingenuo che subito dovrebbe essere cacciato dal suo servizio. Devi pure pensare che l’inganno in cui si trova il custode non lo danneggia affatto, mentre all’uomo danneggia in mille modi». «Qui ti imbatti in una opinione contraria», disse il pastore. «Taluni dicono infatti che la storia non dia a nessuno il diritto di giudicare il custode. Comunque ci appaia, è un servitore della Legge, dunque appartiene alla Legge, dunque rifugge dal giudizio degli uomini. Eppoi si può anche non credere al fatto che il custode sia sottoposto all’uomo. L’essere vincolato per il suo servizio anche solo all’ingresso della Legge, è incomparabilmente di più che vivere liberi nel mondo. L’uomo giunge alla Legge, il custode è già lì. E posto al servizio della Legge, mettere in dubbio la sua dignità vuol dire mettere in dubbio la Legge». «Non sono d’accordo con questa opinione», disse K. scuotendo la testa, «perché se la si condivide, si deve prendere per vero tutto ciò che dice il custode. Ma che questo non sia possibile tu stesso l’hai sostenuto esaurientemente.» «No», disse il pastore, «non si deve prendere tutto per vero, lo si deve ritenere solo necessario.» «Opinione triste», disse K. «La menzogna elevata a regola universale».

Kafka, Il processo, cap. 9. Il racconto del custode viene pubblicato separatamente in Dinanzi alla legge, in Un medico di campagna, 1919

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il ponte

Ero rigido e freddo, ero un ponte, ero disteso sopra un abisso. Di qua stavano le punte dei piedi, di là avevo conficcate le mani, mi aggrappavo nell’argilla sgretolabile. Le falde della mia giacca sventolavano ai miei lati. Nella profondità rumoreggiava il gelido ruscello delle trote. Nessun turista si smarriva fino a quell’altezza impervia, il ponte non era ancora segnato sulle carte. – Stavo così disteso e aspettavo; dovevo aspettare. Senza crollare, nessun ponte, una volta costruito, può cessare di essere ponte.

Una volta, era verso sera, era la prima, era la millesima, non lo so, – i pensieri erano sempre confusi e giravano in tondo, verso sera, nell’estate, il ruscello mormorava più cupamente, allora udii un passo d’uomo! A me, a me! – Stenditi, ponte, mettiti in posizione, travata senza ringhiera, sorreggi colui che è affidato a te. Bilancia impercettibilmente l’insicurezza del suo passo, ma se egli barcolla, fatti conoscere, e, come un dio della montagna, scaraventalo a terra.

Quello venne, mi percosse con la punta di ferro del suo bastone, poi alzò con essa le falde della mia giacca, e le sistemò su di me.

Passò la punta nei miei capelli cespugliosi, la lasciò stare dentro a lungo, forse guardandosi intorno crudelmente. Ma poi – appunto lo seguivo nel sogno per mari e per monti — mi saltò in mezzo al corpo a piedi pari. Io tremai nel violento dolore, del tutto ignaro. Chi era? Un fanciullo? Un sogno? Un bandito di strada? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi girai per guardarlo. — Un ponte che si volta! Non mi ero ancora voltato che già crollavo, crollavo e già ero lacerato e trafitto dai ciottoli aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacificamente dall’acqua impetuosa.

Kafka, Il ponte, 1917

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il silenzio delle Sirene

Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza:

Per difendersi dalle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si lasciò incatenare all’albero maestro. Naturalmente qualcosa di simile avrebbero potuto fare da sempre tutti i viaggiatori, eccetto quelli che le Sirene attiravano già da lontano, ma in tutto il mondo era noto che era impossibile che ciò potesse servire. Il canto delle Sirene penetrava dappertutto e la passione dei sedotti avrebbe spezzato ben più che catene e albero. Ma Odisseo non pensò a questo, benché forse ne avesse sentito parlare. Confidava pienamente in quel poco di cera e in quel fascio di catene, e, con innocente gioia per i suoi mezzucci, andò incontro alle Sirene.

Ora, le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto, il silenzio. Non è accaduto, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma certo non dal loro silenzio. Al sentimento di averle sconfitte con la propria forza, al conseguente orgoglio che travolge ogni cosa, nessun mortale può resistere.

E, in effetti, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, sia che credessero che solo il silenzio potesse vincere quell’avversario, sia che, alla vista della beatitudine nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cera e a catene, dimenticassero affatto di cantare.

Ma Odisseo, per dir così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e che solo lui fosse protetto dall’udirle. Di sfuggita vide sulle prime il movimento dei loro colli, il respiro profondo, gli occhi pieni di lacrime, le bocche socchiuse, ma credette che questo facesse parte delle arie che non udite risuonavano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò appena il suo sguardo fisso nella lontananza, le Sirene scomparvero davanti alla sua risolutezza e, proprio quando era più vicino a loro, non seppe più niente di loro.

Ma quelle – più belle che mai – si stirarono e si girarono, lasciarono agitare al vento i loro tremendi capelli sciolti e tesero le unghie sulle rocce. Non volevano più sedurre, volevano solo carpire il più a lungo possibile il riverbero dei grandi occhi di Odisseo.

Se le Sirene avessero coscienza, quella volta sarebbero state annientate. Ma sopravvissero, solo Odisseo sfuggì a loro.

Ma, a questo punto, si tramanda ancora un’appendice. Odisseo, si dice, era così astuto, era una tale volpe, che neppure la Parca poteva penetrare nel suo intimo. Forse egli, benché ciò non si possa capire con l’intelletto umano, si è realmente accorto che le Sirene tacevano e ha, per così dire, solo opposto come scudo a loro e agli dei la suddetta finzione.

Kafka, Il silenzio delle sirene, 1917

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la metafora degli scacchi

Ai piedi del trono del Gran Kan s’estendeva un pavimento di maiolica. Marco Polo, informatore muto, vi sciorinava il campionario delle mercanzie riportate dai suoi viaggi ai confini dell’impero: un elmo, una conchiglia, una noce di cocco, un ventaglio. Disponendo in un certo ordine gli oggetti sulle piastrelle bianche e nere e via via spostandoli con mosse studiate, l’ambasciatore cercava di rappresentare agli occhi del monarca le vicissitudini del suo viaggio, lo stato dell’impero, le prerogative dei remoti capoluoghi.

Kublai era un attento giocatore di scacchi; seguendo i gesti di Marco osservava che certi pezzi implicavano o escludevano la vicinanza d’altri pezzi e si spostavano secondo certe linee. Trascurando la varietà di forme degli oggetti, ne definiva il modo di disporsi gli uni rispetto agli altri sul pavimento di maiolica. Pensò:”Se ogni città è come una partita a scacchi, il giorno in cui arriverò a conoscerne le regole possiederò finalmente il mio impero, anche se mai riuscirò a conoscere tutte le città che contiene”.

In fondo, era inutile che Marco per parlargli delle sue città ricorresse a tante cianfrusaglie: bastava una scacchiera coi suoi pezzi dalle forme esattamente classificabili. A ogni pezzo si poteva volta a volta attribuire un significato appropriato: un cavallo poteva rappresentare tanto un vero cavallo quanto un corteo di carrozze, un esercito in marcia, un monumento equestre; e una regina poteva essere una dama affacciata al balcone, una fontana, una chiesa dalla cupola cuspidata, una pianta di mele cotogne.

Tornando dalla sua ultima missione Marco Polo trova il Kan che lo attendeva seduto davanti a una scacchiera. Con un gesto lo invitò a sedersi di fronte a lui e a descrivergli col solo aiuto degli scacchi le città che aveva visitato. Il veneziano non si perse d’animo. Gli scacchi del Gran Kan erano grandi pezzi d’avorio levigato: disponendo sulla scacchiera torri incombenti e cavalli ombrosi, addensando sciami di pedine, tracciando viali diritti o obliqui come l’incedere della regina, Marco ricreava le prospettive e gli spazi di città bianche e nere nelle notti di luna.

Al contemplarne questi paesaggi essenziali, Kublai rifletteva sull’ordine invisibile che regge le città, sulle regole cui risponde il loro sorgere e prender forma e prosperare e adattarsi alle stagioni e intristire e cadere in rovina. Alle volte gli sembrava d’essere sul punto di scoprire un sistema coerente e armonioso che sottostava alle infinite difformità e disarmonie, ma nessun modello reggeva il confronto con quello del gioco degli scacchi. Forse, anziché scervellarsi a evocare col magro ausilio dei pezzi d’avorio visioni comunque destinate all’oblio, bastava giocare una partita secondo le regole, e contemplare ogni successivo stato della scacchiera come una delle innumerevoli forme che il sistema delle forme mette insieme e distrugge.

Ormai Kublai Kan non aveva più bisogno di mandare Marco Polo in spedizioni lontane: lo tratteneva a giocare interminabili partite a scacchi. La conoscenza dell’impero era nascosta nel disegno tracciato dai salti spigolosi del cavallo, dai varchi diagonali che s’aprono alle incursioni dell’alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re e dell’umile pedone, dalle alternative inesorabili d’ogni partita.

Il Gran Kan cercava d’immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d’ogni partita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual’era la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato: il nulla…

Italo Calvino, Le città invisibili, cap. 8

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letteratura poetica

perenne monumentum aut moriturum?

Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo impotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar multaque pars mei
vitabit Libitinam: usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine Pontifex.

Hor. Carm. III 30, 1-9

Torna al celeste raggio
dopo l’antica obblivion, l’estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietá rende all’aperto;
e dal deserto fòro
diritto infra le file
de’ mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per vòti palagi atra s’aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l’ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Cosí, dell’uomo ignara e dell’etadi
ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sí lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l’uom d’eternitá s’arroga il vanto.

Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto (Canti, XXXIV), vv. 269-296

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filosofia letteratura poetica

tragica grandezza

Nobil natura è quella
ch’a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor piú gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dá la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.

Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto (Canti, XXXIV), vv. 111-135

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letteratura

audax omnia perpeti

Nequiquam deus abscidit
prudens Oceano dissociabili
terras, si tamen impiae
non tangenda rates transiliunt vada.
Audax omnia perpeti
gens humana ruit per vetitum nefas:
audax Iapeti genus
ignem fraude mala gentibus intulit;
post ignem aetheria domo
subductum macies et nova febrium
terris incubuit cohors,
semotique prius tarda necessitas
Leti corripuit gradum;
expertus vacuum Daedalus aëra
pennis non homini datis;
perrupit Acheronta Herculeus labor.
Nil mortalibus ardui est:
caelum ipsum petimus stultitia neque
per nostrum patimur scelus
iracunda Iovem ponere fulmina.

Hor. Carm. I 3, 21-40

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letteratura

indocilis pauperiem pati

Luctantem Icariis fluctibus Africum
mercator metuens otium et oppidi
laudat rura sui; mox reficit rates
quassas, indocilis pauperiem pati.

Hor. Carm. I 1, 15-18

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letteratura nugae

scrittura e alienazione

Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionalità impassibile e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella.

L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1925