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filosofia nugae politica

bio-politica

Per millenni, l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele: un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente.

Michel Foucault, La volonté de savoir, 1976

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filosofia fragmenta politica

capitalismo come religione

Walter Benjamin & Andy Warhol | Lapham's Quarterly

Nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. Dimostrare tale struttura religiosa del capitalismo – e non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso – condurrebbe ancora oggi nella direzione sbagliata di una smisurata polemica universale. Non possiamo sbrogliare la rete in cui ci troviamo. In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme.

Tre tratti di questa struttura religiosa del capitalismo sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo, il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai si sia data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce, da questo punto di vista, la sua coloritura religiosa. A questa concretizzazione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans [t]rêve et sans merci [“senza tregua e senza pietà”]. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante. Questo culto è in terzo luogo, al contempo, colpevolizzante e indebitante (verschuldend). Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa e debito (verschuldend). Ed è qui che questo sistema religioso precipita in un movimento immane. Una terribile coscienza della colpa (Schuldbewuβtsein), che non sa purificarsi, ricorre al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, per conficcarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per coinvolgere in questa colpa il dio stesso e alla fine rendere lui stesso interessato all’espiazione.

Espiazione che tuttavia non va attesa dal culto stesso, e nemmeno dalla riforma di questa religione – che dovrebbe potersi reggere su qualcosa di saldo in essa – e neanche dal rinnegarla. È nell’essenza di questo movimento religioso – che è il capitalismo – resistere fino alla fine, fino alla finale e completa colpevolizzazione di Dio, al suo indebitamento, fino al raggiungimento dello stato di disperazione del mondo, in cui si arriva persino a sperare. In questo consiste l’aspetto storicamente inaudito del capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, bensì la sua frantumazione. L’estensione della disperazione a stato religioso del mondo è ciò da cui si attende la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta. Ma egli non è morto, è incluso nel destino umano. Questo transito del pianeta Uomo per la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della sua orbita, è l’ethos che Nietzsche determina. Questo uomo è l’Übermensch, il primo che comincia consapevolmente a compiere la religione capitalistica. Il cui quarto tratto è che il suo Dio deve restare nascosto ed è permesso invocarlo soltanto allo Zenit della sua colpevolizzazione, del suo indebitamento. Il culto è celebrato al cospetto di una divinità immatura – ogni rappresentazione, ogni pensiero rivolto a essa viola il segreto della sua maturità.

Anche la teoria freudiana appartiene al dominio sacerdotale di questo culto. Essa è concepita interamente in modo capitalistico. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è – per una profonda analogia ancora da esaminare – il capitale, che grava di interessi l’inferno dell’inconscio.

Il tipo di pensiero religioso capitalistico si trova espresso grandiosamente nella filosofia di Nietzsche. L’idea dell’Übermensch disloca il “balzo” apocalittico non nell’inversione (Umkehr), nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza, bensì in un potenziamento apparentemente costante, ma che nell’ultimo tratto è dirompente e discontinuo. Pertanto, potenziamento e sviluppo nel senso del “non facit saltum” sono incompatibili. L’Übermensch è l’uomo storico giunto alla sua condizione senza inversione di rotta, cresciuto fino ad attraversare il cielo. Nietzsche ha anticipato questa deflagrazione del cielo per mezzo di un elemento umano potenziato, che (anche per Nietzsche) è e resta in termini religiosi colpevolizzazione. E più o meno lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non si inverte diviene – con interessi e interessi composti che sono funzioni del debito (notare l’ambiguità demoniaca di questo concetto) – Socialismo.

Il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma.

Il capitalismo si è sviluppato in Occidente – come va dimostrato non soltanto per il calvinismo, ma anche per le altre correnti cristiane ortodosse – in modo parassitario sul cristianesimo, in modo tale che, alla fine, la storia di quest’ultimo è essenzialmente quella del suo parassita, il capitalismo.

Paragone tra, da un lato, le immagini sacre delle diverse religioni e, dall’altro, le banconote dei diversi Stati. Lo spirito che parla dall’ornamento delle banconote.

Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto: Sorel, Réflexions sur la violence, p. 262.
Superamento del capitalismo mediante la migrazione: Unger, Politik und Metaphysik, p. 44.
Fuchs, Struktur der kapitalistischen Gesellschaft (o qualcosa di simile).
Max Weber, Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie, 2 voll., 1919-1920.
Ernst Troeltsch, Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. I, 1912).
Si vedano le indicazioni bibliografiche di Schönberg II.
Landauer, Aufruf zum Sozialismus, p. 144.

Le preoccupazioni: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica. Assenza spirituale (e non materiale) di via d’uscita nella povertà e nel monachesimo di vaganti e mendicanti. Una condizione che è talmente senza via d’uscita da essere colpevolizzante e indebitante. Le “preoccupazioni” sono l’indice di tale coscienza della colpa per l’assenza di via d’uscita. Le “preoccupazioni” sorgono dall’angoscia per l’assenza di una via d’uscita che sia comunitaria e non individuale-materiale.

Il cristianesimo nell’epoca della Riforma non ha favorito l’avvento del capitalismo, ma si è trasformato in capitalismo.

Sul piano metodologico si dovrebbe indagare innanzitutto quali legami il denaro abbia stretto con il mito nel corso della storia, finché non ha potuto trarre dal cristianesimo così tanti elementi mitici da costituire un proprio mito.

Guidrigildo / thesaurus delle buone opere / compenso dovuto al sacerdote. Pluto come dio della ricchezza.

Adam Müller, Reden über die Beredsamkeit, 1816, p. 56 sgg.

Connessione con il capitalismo del dogma della natura dissolutrice del sapere, che ha la capacità al contempo di redimerci e di ucciderci: il bilancio in quanto sapere che redime e che liquida.

Contribuisce a riconoscere che il capitalismo è una religione rammentare che il paganesimo originario ha dapprima compreso la religione non come un interesse “superiore” e “morale”, bensì come il più immediato interesse pratico; in altre parole, non aveva affatto chiaro, come il capitalismo odierno, la sua natura “ideale” o “trascendente”, ma vedeva piuttosto nell’individuo irreligioso o di altra confessione della sua comunità un membro indubitabile di essa, proprio nel senso in cui la borghesia di oggi considera i suoi membri che non guadagnano.

[metà 1921]

Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. VI, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1972-1989, pp. 100-103; in Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: Capitalismo e religione, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 9-12. Traduzione a cura del Seminario dell’Associazione Italiana Walter Benjamin (AWB).

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filosofia

l’idealismo

La proposizione, che il finito è ideale, costituisce l’idealismo. L’idealismo della filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come un vero essere. Ogni filosofia è essenzialmente idealismo, o per lo meno ha l’idealismo per suo principio, e la questione non è allora se non di sapere fino a che punto cotesto principio vi si trovi effettivamente realizzato. La filosofia è idealismo com’è idealismo la religione. Perocché nemmeno la religione riconosce la finità come un vero essere, come un che di ultimo ed assoluto, o come un che di non posto, d’increato, di eterno. L’opposizione di filosofia idealistica e realistica è quindi priva di significato. Una filosofia che attribuisse all’esistere finito, come tale, un vero essere, un essere definitivo, assoluto, non meriterebbe il nome di filosofia.

G. W. Hegel, Scienza della logica, Libro I. La dottrina dell’essere, Sez. I, Qualità. Cap. II, L’esser determinato, Nota II

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filosofia politica

etica dei principî, etica della responsabilità

Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può essere ricondotto a due massime fondamentalmente diverse l’una dall’altra e inconciliabilmente opposte: può cioè orientarsi nel senso di un’«etica dei principî» [Gesinnungsethik] oppure di un’«etica della responsabilità» [Verantwortungsethik]. Ciò non significa che l’etica dei principî coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con una mancanza di principî. Non si tratta ovviamente di questo. Vi è altresí un contrasto radicale tra l’agire secondo la massima dell’etica dei principî, la quale, formulata in termini religiosi, recita: «Il cristiano agisce da giusto e rimette l’esito del suo agire nelle mani di Dio», oppure secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale si deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire. […] Colui che agisce secondo l’etica dei principî si sente «responsabile» soltanto del fatto che la fiamma del puro principio – per esempio la fiamma della protesta conto l’ingiustizia dell’ordinamento sociale – non si spenga. Ravvivarla continuamente è lo scopo delle sue azioni completamente irrazionali dal punto di vista del possibile risultato, le quali possono e devono avere soltanto un valore esemplare

Max Weber, Politik als Beruf, 1919

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filosofia

della ragione nell’uomo

Il buon senso è la cosa ripartita meglio al mondo. Tutti pensano di esserne molto dotati e perfino chi nelle altre cose è piú difficile da accontentare, di solito, non ne desidera piú di quanto ne abbia. Poiché non è verosimile che tutti s’ingannino, questo prova che la capacità di giudicare bene e distinguere il vero dal falso, che propriamente chiamiamo buon senso o ragione, è per natura uguale in tutti gli uomini; la diversità delle opinioni, allora, non dipende dal fatto che alcuni sono piú ragionevoli di altri, ma solo dal fatto che conduciamo i nostri pensieri per strade diverse e non consideriamo le stesse cose. Essere dotati di una buona intelligenza non è sufficiente; è fondamentale applicarla bene. Gli animi piú grandi sono capaci delle piú grandi virtú, ma anche dei vizi piú grandi; e chi procede molto lentamente, se segue sempre la strada retta, può avanzare molto di piú di chi corre ma se ne allontana.

[…]

Poiché la ragione o buon senso è la sola cosa che ci rende uomini e ci distingue dalle bestie, voglio credere che sia tutta intera in ciascuno di noi e seguire cosí l’opinione comune dei filosofi, secondo i quali il piú e il meno esistono solo tra gli accidenti, non tra le forme o nature degli individui della stessa specie.

R. Descartes, Discorso sul metodo, 1637

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filosofia letteratura poetica

tragica grandezza

Nobil natura è quella
ch’a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor piú gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dá la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.

Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto (Canti, XXXIV), vv. 111-135

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filosofia

una filosofia misantropica?

Chi comunica poco cogli uomini, rade volte è misantropo. Veri misantropi non si trovano nella solitudine, ma nel mondo: perché l’uso pratico della vita, e non già la filosofia, è quello che fa odiare gli uomini. E se uno che sia tale, si ritira dalla società, perde nel ritiro la misantropia.

Leopardi, Pensieri LXXXIX

La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi, ec. ec.|

Leopardi, Zib. 4428

Galimberti (G. Leopardi, Pensieri, a cura di Cesare Galimberti, Adelphi, Milano 1982) colloca questa riflessione leopardiana lungo la linea che nella Ginestra giungerà ad invocare la solidarietà di tutti gli uomini contro la potenza distruttiva della natura, “attraverso una purificazione individuale, da attuarsi non operando nel vivo della società, ma raggiungendo nel ritiro la dimenticanza del contenere quotidiano” (pp. 160-161).

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filosofia poetica

antinomie di leopardi

Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l’onora e la nobilita.

[…]

Aggiungi che la profonda tristezza con la quale Leopardi spiega la vita, non ti ci fa acquietare, e desíderi e cerchi il conforto di un’altra spiegazione. Sicché se caso, o fortuna, o destino volesse che Schopenhauer facesse capolino in Italia, troverebbe Leopardi che gli si attaccherebbe a’ piedi come una palla di piombo, e gl’impedirebbe di andare innanzi.

F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, 1858

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filosofia politica

l’ethos del capitale

[…] Colpisce come la peculiarità di questa «filosofia dell’avarizia» [espressa in un brano di Walter Benjamin] sia l’ideale dell’uomo onesto degno di credito, e, soprattutto, l’idea che il singolo sia moralmente tenuto ad aumentare il proprio capitale (col presupposto che l’interesse a tal aumento sia fine a se stesso). In effetti, che non vi sia predicata semplicemente una tecnica di vita, ma una peculiare «etica» – la cui violazione non è trattata solo come follia, ma come una specie di negligenza del dovere –, questo è soprattutto il punto essenziale. Non è solo l’«abilità negli affari» a esservi insegnata (come accade abbastanza spesso anche altrove); ciò che si esprime è un ethos, che ci interessa appunto in quanto tale.

[…]

Ma, soprattutto, il «summum bonum» di questa «etica» – guadagnare denaro, sempre più denaro, alla condizione di evitare rigorosamente ogni piacere spontaneo – è così spoglio di ogni considerazione eudemonistica o addirittura edonistica, è pensato come fine a se stesso con tanta purezza, da apparire come alcunché di totalmente trascendente, in ogni caso, e senz’altro irrazionale, di fronte alla «felicità» o all’«utilità» del singolo individuo. L’attività lucrativa non è più in funzione dell’uomo quale semplice mezzo per soddisfare i bisogni materiali della sua vita, ma, al contrario, è lo scopo della vita dell’uomo, ed egli è in sua funzione.

M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1905